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Filippo Gavazzoni: «Coregone lavarello, Trota fario, ripopolamenti ittici. Vi dico la mia, senza filtro»

11 Maggio 2025
Filippo Gavazzoni: «Coregone lavarello, Trota fario, ripopolamenti ittici. Vi dico la mia, senza filtro»

Nella foto: Filippo Gavazzoni

Siamo “dipendenti” dai ripopolamenti ittici? Sono effettivamente indispensabili e quindi l’unica soluzione in grado di mantenere ancora vivi i nostri corsi d’acqua? Queste, a mio modo di vedere, possono essere le domande su cui ruotano annose questioni, acuite ultimamente dalle disposizioni in merito all’impossibilità del ripopolamento di specie riconosciute non autoctone, come la trota Fario e Coregone lavarello, per esempio. Mi sono sempre chiesto infatti se esista un equilibrio all’interno del quale si possa ricercare la formula migliore per prendersi cura di un contesto naturale e di conseguenza a dell’ittiofauna che lo popola. Negli anni ho studiato varie pubblicazioni scientifiche ad ampio spettro, dall’evoluzione biologica delle acque, alle caratteristiche delle stesse, l’ittiofauna lacustre, ecc. Non mi sono voluto accontentare di ciò che sentivo nelle discussioni, non mi sono fossilizzato alle “chiacchere da bar”, ho sentito la necessità come politico e amministratore di un territorio come quello gardesano, di vedere il problema e comprenderlo con i miei occhi, attraverso un mio ragionamento, studiando.

Probabilmente tra le conoscenze che mi hanno condotto verso un’analisi critica di questa questione, vi è la storia del ripopolamento del Coregone lavarello nel lago di Garda e lo studio dell’evoluzione dell’ittiofauna gardesana. Senza entrare nella questione legata alla sua catalogazione riporto questo esempio: questo pesce nel Garda fu immesso nel 1918, nel golfo di Desenzano e Salò, come specie di interesse per la pesca di professione con la fondata speranza che potesse diventare un nuovo elemento in grado di garantire maggiori introiti economici per la pesca gardesana. Dopo le immissioni i primi lavarelli furono finalmente pescati tre anni dopo, era il 1921, circa il tempo necessario per il Coregone lavarello di raggiungere la sua taglia minima. Questo pesce si acclimatò, ovvero trovò un habitat idoneo per nutrirsi e che gli permise di dare seguito al suo istinto nella ricerca di fondali idonei alla riproduzione, quando stimolato da determinate temperature dell’acqua.

Ha cominciato quindi a riprodursi, gli avannotti a crescere e “selezionarsi” in base alla resistenza e adattabilità specifica per quel nuovo contesto ambientale in cui erano stati inseriti: il lago di Garda. In un certo senso quindi questo pesce, generazione dopo generazione, ha cominciato a plasmarsi intorno l’habitat gardesano; è un processo lento, che fornisce però senso ed importanza al significato di “patrimonio genetico”.

I ripopolamenti, che vennero intrapresi a partire dal 1925 con le prime spremiture di esemplari catturati nel Garda, anche nello stabilimento ittiogenico di Peschiera del Garda, avevano certamente una valenza in quel momento. Il pesce cresceva, si cominciava a riprodurre da solo e le autorità volevano consolidare ed aumentare velocemente questa presenza attraverso gli incubatoi; ecco che il pesce veniva prelevato nel momento della riproduzione, spremuto per ottenere le uova, poi fecondate e fatte schiudere, per poi conseguentemente liberare nuovi nati in ambiente naturale.

Ma questa pratica, che poteva avere anche un senso all’inizio di questa storia, verosimilmente è stata portata sempre più all’estremo, prelevando troppi riproduttori dalle acque del lago, sottraendo loro la possibilità di frega naturale e ciò non ha certo permesso né quella differenziazione rispetto la selezione naturale dei nuovi nati, né il perdurare di buoni riproduttori, eccessivamente catturati per le pratiche ittiogeniche. Credo che, rispetto anche a varie letture e pubblicazioni scientifiche sulle quali mi sono documentato, questa pratica possa avere delle criticità, laddove il contesto ambientale non sia eccessivamente compromesso, e non credo possa essere identificata come la sola soluzione per la salvaguardia delle specie ittiche in un ambiente naturale (almeno non dovrebbe essere la sola questione percepita come necessaria). Oggi pare che ancora lo sia.

A volte credo che la volontà di sostenere gli incubatoi per certi pescatori sportivi equivalga solamente al desiderio di avere, nel lago o in fiume, pesce da pescare, considerando questi ambienti naturali alla stregua di una cava di pesca sportiva in cui pago il mio biglietto e pretendo che, una o due volte al giorno, il proprietario dalle proprie vasche rilasci pesce “pronto uso”, ovvero pronto per essere pescato. Per taluni pescatori di professione invece, il periodo della riproduzione e quindi del prelievo per fornire materiale biologico agli incubatori viene visto come un’ottima occasione, veloce e meno faticosa, per reperire pesce, spesso tanto pesce, da vendere in periodo di divieto (viste le deroghe per attività ittiogenica).

Ovviamente questo non è un discorso che vale per tutti, sia chiaro, sono tuttora convinto che si tratti di una minoranza a ragionare in questi termini, da entrambe le parti; tuttavia questo pensiero circola eccome, inutile nasconderlo. Molti pescatori per fortuna vorrebbero vedere un ambiente sano e funzionale a sé stesso, in grado di garantire una riproduzione naturale e, conseguentemente, essendo dimostrato essere la riproduzione più efficace possibile, vedere un aumento della biomassa nei propri corsi d’acqua, senza che essi debbano dipendere da quanto materiale viene immesso o non immesso.

A tal proposito e a supporto di quanto ho fin ora scritto, riporto una recentissima pubblicazione svizzera dell’Ufficio Federale per l’Ambiente, UFAM-2023, legata principalmente alle trote e salmonidi nei fiumi; trascrivo ora testualmente parte delle conclusioni di questo studio: “La 𝘴𝘪𝘯𝘵𝘦𝘴𝘪 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘦𝘴𝘱𝘦𝘳𝘪𝘦𝘯𝘻𝘦 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘭𝘵𝘦 𝘪𝘯 𝘚𝘷𝘪𝘻𝘻𝘦𝘳𝘢 è 𝘥𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦 𝘪𝘯 𝘭𝘪𝘯𝘦𝘢 𝘤𝘰𝘯 𝘭𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘤𝘭𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘪 𝘴𝘤𝘪𝘦𝘯𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘩𝘦 (𝘪𝘯 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘪𝘤𝘰𝘭𝘢𝘳𝘦 𝘙𝘢𝘥𝘪𝘯𝘨𝘦𝘳 𝘦𝘵 𝘢𝘭. 2023), 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘪𝘮𝘰𝘴𝘵𝘳𝘢𝘯𝘰 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘪𝘭 𝘳𝘪𝘱𝘳𝘪𝘴𝘵𝘪𝘯𝘰 𝘧𝘶𝘯𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦 𝘥𝘦𝘨𝘭𝘪 𝘩𝘢𝘣𝘪𝘵𝘢𝘵 è 𝘭’𝘶𝘯𝘪𝘤𝘢 𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰𝘳𝘢 𝘥𝘶𝘳𝘦𝘷𝘰𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘭𝘢 𝘴𝘪𝘵𝘶𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘧𝘢𝘶𝘯𝘢 𝘢𝘤𝘲𝘶𝘢𝘵𝘪𝘤𝘢. 𝘋𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘴𝘦𝘨𝘶𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘴𝘪𝘥𝘦𝘳𝘢𝘵𝘪 𝘪 𝘳𝘪𝘴𝘤𝘩𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘢 𝘣𝘪𝘰𝘥𝘪𝘷𝘦𝘳𝘴𝘪𝘵à, 𝘪𝘥𝘦𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘰𝘤𝘤𝘰𝘳𝘳𝘦𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘤𝘦𝘴𝘴𝘢𝘳𝘦 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘴𝘪𝘷𝘰𝘨𝘭𝘪𝘢 𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘪 𝘳𝘪𝘱𝘰𝘱𝘰𝘭𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰. 𝘈𝘭𝘵𝘳𝘪𝘮𝘦𝘯𝘵𝘪, 𝘭𝘢𝘥𝘥𝘰𝘷𝘦 𝘢𝘯𝘤𝘰𝘳𝘢 𝘱𝘳𝘢𝘵𝘪𝘤𝘢𝘵𝘰 è 𝘯𝘦𝘤𝘦𝘴𝘴𝘢𝘳𝘪𝘰 𝘷𝘦𝘳𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘳𝘯𝘦 𝘴𝘪𝘴𝘵𝘦𝘮𝘢𝘵𝘪𝘤𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘭𝘢 𝘱𝘦𝘳𝘵𝘪𝘯𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘮𝘦𝘥𝘪𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘶𝘯 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘳𝘰𝘭𝘭𝘰 𝘴𝘰𝘭𝘪𝘥𝘰 𝘦 𝘤𝘰𝘦𝘳𝘦𝘯𝘵𝘦 (𝘚𝘱𝘢𝘭𝘪𝘯𝘨𝘦𝘳 𝘦𝘵 𝘢𝘭. 2018)”.

Quindi la mia considerazione è presto fatta: se riuscissimo a concentrare meno l’attenzione e la discussione sulle questioni legate all’autoctonia o para-autoctonia di determinate specie, portando il dibattito su questioni scientificamente valide come la rinaturazione degli habitat, il recupero dei letti di frega e delle condizioni ideali per garantire la riproduzione naturale delle specie presenti nei nostri corsi d’acqua, probabilmente oggi potremo mettere a dimora delle basi solide per costruire un futuro, altrettanto solido, circa il futuro e salvaguardia dell’ittiofauna dei nostri corsi d’acqua, che poi alla fine è quello che tutti vorrebbero vedere.

L’intento di questo mio scritto non è certo screditare l’attività ittiogenica, ma anzi elevarla all’eccellenza. La mia convinzione è che se venisse portata avanti con solide basi scientifiche, le più recenti possibili e con un’indagine e selezione del patrimonio genetico ideale dei riproduttori, attraverso un prelievo limitato degli stessi allo stretto necessario, probabilmente potremmo lavorare su due fronti, habitat ed incubatoi, per cercare di raggiungere il miglior risultato possibile. A questo andrebbe aggiunta anche una tutela e contenimento dei prelievi sia professionistici che sportivi, per tendere ad un aumento sia della biomassa in genere che delle taglie, visto che il numero di uova deposte va in proporzione al peso del riproduttore.

Insomma è un cambio di mentalità che serve anche per volgere lo sguardo verso altre priorità, che non possono essere ridotte alla sola questione: ripopolamento si, ripopolamento no.

Questa cosa ormai ha stufato, dovremmo avere il coraggio di pretendere di guardare oltre. Oggi la parola d’ordine deve essere consapevolezza, che si declina in una visione del futuro chiara e ambiziosa, dove l’unico modo per arrivare a tale consapevolezza risulta essere lo studio e la scienza. Questa consapevolezza deve però permeare la politica e i politici, regionali soprattutto, che hanno delega per agire in questi contesti amministrativi.

Solo così, ovvero con la consapevolezza dello stato dell’arte delle cose, potranno investire risorse adeguate a favore dei migliori e titolati biologi e ittiologi, non per dimostrare se un pesce può essere considerato para-autoctono o meno, ma per commissionare e realizzare interventi sui nostri corsi d’acqua affinché possano beneficiare di piani di recupero ambientale, gli unici in grado di garantire un risultato vero. Chi ama davvero la pesca ama il proprio territorio, chi ama il proprio territorio non può accontentarsi di scalfire la superficie dei problemi, non può e non deve pretendere che un fiume o un lago diventi una “cava di pesca”, quelle già esistono. E’ imperativo piuttosto andare a fondo delle questioni, con rigore scientifico e fiducia nelle istituzioni, stimolandole verso un sano dibattito costruttivo, scientificamente valido, per fare la propria parte e recuperare una situazione che ad oggi, a parer mio, risulta sempre più critica e sulla via del non ritorno.

Filippo Gavazzoni – vicepresidente Comunità del Garda

Tags: #trotafario #coregonelavarello #ripopolamenti #lago #filippogavazzoni #comunitàdelgarda #approfondimento

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1 thought on “Filippo Gavazzoni: «Coregone lavarello, Trota fario, ripopolamenti ittici. Vi dico la mia, senza filtro»”

  1. Ernesto Natali ha detto:
    12 Maggio 2025 alle 17:17

    Secondo me, il primo problema da affrontare e il controllo del pescato da parte dei pescatori con reti e pesca sportivi con barca, mentre pescatori con canna da riva ormai non trattengono più i pesci. Cormorani?

    Rispondi

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